domenica 19 aprile 2009

APPENA LETTO... AMIRBAR di ALVARO MUTIS




Chi conosce già Mutis per la trilogia delle "Imprese e tribolazioni di Maqroll il Gabbiere", che inizia con "La neve dell'ammiraglio", o lo conosce per "L'ultimo viaggio del Tramp Steamer", sa che lo scrittore colombiano racconta le vicende, quasi tutte marinaresche, di Maqroll, "in un ordine - come è stato scritto (Canfield) - che non ha nulla a che vedere con l'ordine cronologico". E che spesso egli ama ricordare (e ritrascrivere) personaggi e avventure precedenti o, come s'immagina, future, giocando con i testi e cercando la complicità arguta del lettore. Per esempio, alla fine della trilogia citata racconta persino la morte del Gabbiere, le cui storie egli era ben lungi dall'avere esaurito in quell'occasione.
A sommo godimento di quel lettore arguto (ogni scrittore di qualità sa crearsi il lettore che merita), in questo "Amirbar" Mutis si diletta di rimandarlo, con note a piè di pagina, ad altri suoi libri: cosa che prima e altrove aveva lasciato alla memoria o alle abilità di "caccia" di quello stesso lettore. Ma non è solo questa la novità del nuovo romanzo: in una delle appendici che chiudono il libro ci fa scoprire le "letture del Gabbiere", le quali sembrano coincidere con quelle, eterogenee e curiose, dello stesso Mutis. Così, oltre a libri periferici e bizzarri di storia o di poco note memorie, su periodi foschi e intricati del passato, il Gabbiere rivela che per quanto riguarda la letteratura per lui "Céline è il miglior scrittore di Francia dopo Chateaubriand; ma il miglior romanziere è Simenon"...
Insomma, si direbbe che con "Amirbar" Mutis sia sicuro ormai di poter sfoderare tutto il suo virtuosismo ludico e il suo ormai solido e vitale rapporto con la scrittura narrativa (e con i suoi lettori). Il Gabbiere - che nel romanzo attuale è raccontato all'inizio e qua e là in terza persona - viene rintracciato per caso (da chi porta avanti la narrazione) in un misero motel della California, ma risulta seriamente ammalato di malaria e appare persino stanco del suo quasi istintivo e incessante vagabondare; e colui che, invece - in discorso diretto e in prima persona -, si autoracconta è stavolta coinvolto non in avventure di mare e di costa, bensì in una poco convinta ma comunque ugualmente travolgente febbre dell'oro, quella che assale certi minatori accaniti in cerca di vecchie e arcane vene aurifere già sfruttate e abbandonate. Aleggia su tutto questo una premonitoria aria di "sconfitta" (pari alla sconfitta preannunciata dal distico iniziale di Reverdy). Un senso di rimorso o di condanna traspare anche dalla voce che il Gabbiere crede di decifrare nel vento proveniente da quella grotta dove, con un compagno, va in cerca dell'oro: gli sembra che quella voce pronunci una parola misteriosa: Amirbar; una parola - poi spiega - derivante "dall'arabo Al Emir Bahr che si traduce come capitano del mare" e quindi Ammiraglio.
Anche qui, pur frequentando il mondo sotterraneo delle miniere, Maqroll viene catturato da pacati o travolgenti amori di donne: e sono, come sempre, o donne materne e protettrici o, come l'Antonia del presente romanzo, amanti furiose e sempre a un passo dalla follia. E anche qui non mancano ammiccamenti al mondo del suo amico Garc¡a M rquez: e uno di questi riferimenti astuti viene proprio da Antonia (la quale teme il parto perché le hanno predetto la morte per parto e quindi preferisce l'accoppiamento sodomitico), quando racconta che da bambina "amava mangiare la terra", ricordando un personaggio femminile del famoso premio Nobel colombiano.
Insomma: pure in grazia dell'inclusione (altra novità) di due poemi in prosa (uno sotto forma di preghiera), è questo il romanzo forse più intimo e personale e sofferto di Mutis; quello dove il suo alter ego affiora più perentorio e in più punti (come si è veduto). Di qui proviene una parte notevole del suo fascino: che non so se interpretare come segno di un amaro ripiegamento su se stesso o come una forza bizzarra e anomala della fantasia di questo imprevedibile scrittore.
Un'ultima avvertenza al lettore di questa recensione: laddove Dora Estella, nella lettera a p. 79, rifiuta di accompagnare in miniera il Gabbiere "perché del topo non ho nulla", si legga: "perché della talpa non ho nulla". Infatti topo in spagnolo significa talpa (e così ad esempio la rivista "El Viejo Topo", che era una specie di "Linus" spagnolo degli anni settanta, si riferiva - come è ovvio - al detto famoso di Marx sulla "vecchia talpa". Tuttavia, a differenza di alcune opere precedenti di Mutis (come ad esempio il volume di poesie "Summa di Maqroll il Gabbiere": questa volta la traduzione rende giustizia al testo e al suo autore.

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