giovedì 2 giugno 2011

INTERVISTA A MASSIMO CACCIARI


La nozione di libertà costituisce uno dei grandi temi ispiratori dell'intera filosofia. Come si definisce il concetto di libertà?

Si è affermato da più parti che la domanda fondamentale della filosofia sarebbe "perché qualcosa invece che nulla?". Io ritengo invece che la domanda che davvero urge in tutta la riflessione filosofica sia: chi siamo, e, in particolare, siamo liberi? Tutte le altre domande fondamentali sono in qualche modo derivate da questa. Che cosa può dirsi libero? Su quali basi, per quali ragioni possiamo dirci liberi? Partiamo dalla definizione di un grandissimo filosofo che interroga con estrema radicalità questo tema, Spinoza. In una delle prime proposizioni dell'Etica egli afferma: "Diciamo libera quella cosa che esiste per sola necessità della sua natura, e si determina ad agire da sé sola". Questa è la definizione più rigorosa che possiamo dare del termine libertà. Ma in base a tale definizione nessun uomo potrebbe dirsi veramente libero, poiché la nostra mente è sempre determinata ad agire da questa o quella causa. E tale causa è a sua volta determinata da un'altra causa, e così via all'infinito. Cè dunque qualcosa che possa dirsi libero sulla base della definizione spinoziana? Ecco la domanda che ci rivolgiamo, la domanda che ci inquieta, che ha sempre inquietato la nostra riflessione, non soltanto in quanto filosofi, ma soprattutto in quanto uomini. Perché ci rivolgiamo questa domanda, perché ci inquieta tanto questa domanda che sembra essere senza risposta e che probabilmente è senza risposta? Forse ci rivolgiamo questa domanda così inquietante, così radicale perché non siamo soddisfatti del nostro agire: se fossimo contenti del nostro agire ci chiederemmo se siamo liberi? Probabilmente no. L'animale non si pone questa domanda, per quanto possiamo saperne; l'animale è contento della sua azione, è assolutamente determinato, è assolutamente dominato dalle cause che lo spingono ad agire. Ma in questo essere totalmente dominato e totalmente determinato da queste cause l'animale è contento, si trova a suo agio, e quindi non si interroga sulla sua libertà. Noi ci interroghiamo sulla nostra libertà perché nel nostro essere determinati, nel nostro essere causati, non siamo contenti; in realtà la nostra azione non ci soddisfa mai. Tale interrogazione deriva da una profonda inquietudine, la quale a sua volta sorge da una profonda insoddisfazione: il nostro èrgon, il nostro agire, il nostro lavoro - così tradurrei il termine greco èrgon -, il nostro lavoro non sa mai raggiungere una enérgheia, come dicevano i greci: non è mai perfettamente a posto in sé, non è mai in pace con sé, non è mai vero atto; è sempre qualcosa di manchevole, qualcosa che soffre di una assenza, di una miseria, di una povertà, che non sa mai compiersi, non sa mai "perficersi", cioè non dà mai vita a qualcosa di perfetto. Perciò ci chiediamo: per quale ragione non produciamo mai qualcosa in cui essere in pace? Forse perché non siamo liberi, forse perché c'è qualcosa di cattivo che ci determina ad agire.


Il nostro interrogarci sulla libertà scaturisce dall'inquietudine che accompagna il nostro agire, da noi sempre percepito come manchevole, incompleto. In che termini allora il tema della libertà si collega a quello del male, che, secondo la visione neoplatonica, è appunto privazione, legato all'originaria limitazione delle cose umane rispetto alla perfezione di Dio?

Il tema della libertà, che ci si impone forse per le ragioni che ho indicato, si coniuga direttamente al tema del male. Noi ci interroghiamo sulla nostra libertà, ci poniamo la domanda se siamo liberi perché il nostro agire è male, perché facciamo male. Questa espressione va intesa nel senso più generale del termine: non si tratta di far male nel senso di violentare, uccidere, o derubare; no, facciamo male perché nessuna delle nostre opere ci soddisfa, perché non siamo mai enérgheia, atto, perché siamo sempre un èrgon imperfetto: in questo senso facciamo male. Ci poniamo la domanda intorno alla libertà perché ci sembra di essere cattivi, di fare male nel senso più radicale del termine; facciamo male - al di là di ogni accezione psicologico-moralistica del termine - in un senso ontologico. Il nostro tema diviene allora il tema della libertà e il tema del male, i quali formano un tutt'uno. Qual è stata la risposta dominante della grande tradizione filosofico-teologica a questo tema, che inquieta ciascuno di noi, non appena ci arrestiamo a pensare - è proprio questo infatti il lavoro della filosofia: arrestare e far pensare ? La risposta dominante nella nostra tradizione filosofica e teologica è stata quella imposta da Platone all'origine della nostra riflessione. Dice Platone - e la sua risposta è diventata canonica -: "del male, e quindi del nostro far male, il Dio non può essere ritenuto causa. Dio è bene, Dio è immutabile, è semplice, è veritiero, ed è causa di tutti i beni. Theos anaitios, Dio è innocente". Tutta la riflessione teologica successiva si fonda su tale presupposto platonico: Dio deve essere ritenuto innocente dei mali del mondo: è per nostra scelta, è per nostra libertà che noi facciamo male. Noi non siamo determinati dal divino ad agire male; le nostre imperfezioni, le nostre miserie sono frutto e prodotto della nostra libertà. Dio è innocente, è l'uomo che è causa del male, è l'uomo - secondo il grande mito che Platone narra nella Repubblica - che si sceglie il proprio daimon, il proprio carattere, il proprio demone sulla base della vita che ha condotto. Platone sottolinea che in questa scelta l'uomo è perfettamente libero. Tuttavia, una volta scelto il proprio daimon, egli rimarrà vincolato da ferree, inesorabili catene. Io sono libero nel momento in cui scelgo il mio carattere, il mio daimon; lo faccio mio liberamente, non posso dichiarare alcun Dio colpevole di questa scelta. Ma una volta che ho scelto il mio daimon, per questa vita io ci resto incollato, religato; l'uomo dunque è libero soltanto nell'istante supremo della decisione. Questo tema ritorna in varie forme anche nella cultura contemporanea: la libertà è riposta nell'istante della decisione: nella scelta sono perfettamente libero, poi quella scelta mi determina per sempre. Nella cultura classica greca però l'uomo è libero non solo nel momento supremo - come lo chiama Platone - in cui sceglie il proprio carattere, il proprio daimon. L'uomo è libero anche durante la propria vita, e la sua libertà coincide allora con il conoscere; cioè io sono libero nel corso della mia vita di accumulare tutte le conoscenze necessarie, affinché, nel momento supremo della decisione, io possa scegliere consapevolmente il mio destino. Questo è un tema caratteristico della cultura greca, è la sua dominante intellettualistica: la libertà dell'uomo si esplica essenzialmente nella sua volontà di conoscere. Soltanto qui sta la mia possibile salvezza: io posso conoscere il destino, posso conoscere ciò che mi destina. Un'immagine che ricorre in tutta la cultura greca e latina è quella per cui solo la conoscenza può salvarmi dal seguire il carro del destino in ceppi, come uno schiavo oppresso. Io non posso sfuggire il destino; ma posso conoscerlo, e dunque seguirlo volentieri, non come gli schiavi seguono il carro dei vincitori, in catene. Quindi la mia libertà consiste nell'intelligere deum, che significa comprendere ciò che è necessario. La mia libertà consiste nella capacità di armonizzarmi con ciò che è necessario, con il logos, la ragione che pervade tutto il cosmo; io posso conoscere questa ragione e adeguarmi, armonizzarmi con essa. Che ne è allora dal punto di vista della grande gnosi classica, della grande filosofia classica, del problema del rapporto tra libertà e male? Se la mia libertà consiste nel farmi una ragione dell'unica ragione, dell'unico logos che pervade tutto il cosmo, che ne è del male? Il male non sussiste più perché tutto è ragione, e male e bene non diventano altro che punti di vista soggettivi: il male non è altro che ciò che fa male a me, ma che non riguarda affatto la ragione del tutto; il bene diventa soltanto ciò che fa bene a me, che mi aiuta a vivere, che aiuta il mio benessere, ma non riguarda la ragione del tutto, nella quale male e bene cessano di avere significato, perché solo il necessario, il logos onnipervadente ha significato; male e bene hanno una consistenza puramente soggettiva. Il male non è altro, allora, che mancanza di sapere: è male che io non sappia e che non sapendo sia costretto a seguire il carro del destino come uno schiavo; il male è il non sapere e l'essere nella condizione di oppresso, non di alleato del destino, non di consapevole compagno del destino; un puro schiavo, un semplice schiavo. Il male non è altro che un vuoto, una mancanza. Un mero e un fuggevolissimo punto di vista di un soggetto ignorante, di una res nullius, come lo schiavo per gli antichi, una cosa di nessuno, di nessun rilievo, di nessuna importanza; un niente, un vuoto. Questa prospettiva è dominante nella nostra tradizione filosofico-teologica, la quale, a ben vedere, rimuove il problema del male, lo annichilisce: il male è niente, il male è nient'altro che il punto di vista della ignoranza e della impotenza dell'anima caduta.

Secondo la cultura greca la libertà dell'uomo coincide con la comprensione e l'accettazione di ciò che è necessario, del destino. In tale prospettiva il male viene ad assumere una consistenza puramente soggettiva: esso non è altro che mancanza di sapere. Quali sono i problemi connessi a questa concezione della libertà e alla conseguente rimozione del problema del male?

Dalla posizione della gnosi classica, la quale fa del male un niente, una mancanza, un vuoto, nascono grandiose aporie e nuovi problemi, con cui si imbatte la cultura classica e anche la cultura teologica cristiana, così come quella islamica o giudaica. La caduta dell'anima, per cui l'anima ignora, si fa impotente, non vede più il necessario, non è forse a sua volta necessaria? L'anima cade; l'anima cade nell'universo delle dissomiglianze, nell'universo del molteplice. I grandi filosofi dell'antichità, da Platone e Aristotele, ma ancor più della tradizione neoplatonica, da Platone fino a Plotino e a Proclo, affermano appunto che la caduta dell'anima è necessaria. Prendiamo un testo molto noto, il Fedro di Platone. In esso Platone narra che l'anima non può resistere al seguito del Dio, nella contemplazione del necessario. A un certo punto tutte le anime cadono, si reincarnano, ritornano nell'universo delle dissomiglianze. Noi non possiamo resistere sempre alla visione del Dio; questa visione a un certo punto ci acceca, ci affatica troppo, la nostra anima non può sopportarla e cadiamo. Di questa caduta Dio è innocente oppure no? Per l'anima questa caduta è male, è sofferenza, è mancanza. Ma questa caduta è colpa dell'anima? Come possiamo attribuirla all'anima, questa colpa, se diciamo che questa caduta è necessaria? Se essa è necessaria, l'anima cade non per sua colpa. Chi ha fatto l'anima, se non Dio? Chi ha prodotto l'anima? Nel Timeo Platone afferma che l'anima è plasmata da un Dio. E nel Fedro si precisa che questanima necessariamente cade. È necessario che l'anima cada, perché l'anima dell'uomo non è Dio. Può giungere alla contemplazione di Dio, ma non può fermarsi sempre, eternamente, in questa contemplazione; deve dar vita a nuove vite. Ma di questa caduta necessaria come possiamo dire che è colpevole l'anima stessa? Come possiamo tener ferma la concezione da cui siamo partiti, quella del theos anaitios, per cui Dio è innocente e non è causa del male, se la caduta dell'anima è male ed è necessaria? Ecco la grande aporia in cui si imbatte tutta la tradizione filosofica tardo-antica e, a partire di qui, tutta la tradizione filosofica e teologica cristiano-europea. È la grande domanda che assilla non soltanto il filosofo, ma l'intera grande letteratura europea. Basti pensare al nostro Leopardi, a Dostoevskij: se l'anima cade necessariamente in questa valle di lacrime, come può essere colpevole? Come possiamo non pensare che vi sia un male in Dio, se l'anima cade e non cade per sua colpa, se questa caduta è necessaria? Qual è la risposta cristiana? Analizzando attentamente i testi si comprende quanto queste risposte, spesso presentate in termini scolastici, sistematici, siano in realtà drammatiche per i grandi autori che le interpretano. La risposta canonica nella cristianità è quella agostiniana: Dio non è autore del male, ma ne è origine. Per conseguire un bene maggiore - e il bene maggiore che Dio vuole conseguire è la nostra libertà, Dio ci vuole rendere liberi - Dio non poteva che farci capaci di peccato, di male. Dio è origine del male, perché ci fa capaci di peccato, ma non è l'auctor del nostro peccato. Solo noi facciamo il male, solo noi siamo gli autori del male; i peccati sono solo nostri, e bestemmia chi li attribuisce a Dio.


Il grande dilemma in cui si imbatte la nostra tradizione filosofica è rappresentato dalla giustificazione della provvidenza divina dinnanzi al male fisico e morale. La questione si complica ulteriormente quando, sotto il nome di predestinazione, essa viene a investire il rapporto fra libertà umana e divina. In che termini il tema del libero arbitrio si collega allora a quello della salvezza?

Secondo la visione agostiniana Dio è l'origine del male poiché, per renderci liberi, ci rende capaci di peccare. Tuttavia solo noi siamo gli autori del male. A questo punto si pone il problema della salvezza. Sono in grado io, come peccatore, di salvarmi? No, dice Agostino, tu da solo non puoi salvarti, né questa possibilità è legata alla conoscenza. Qui Agostino e tutta la cristianità si separano nettamente dal mondo classico: non vi è salvezza nella conoscenza pura e semplice. L'abisso del peccato, del male è tale che l'uomo non può trarsene fuori da solo; è soltanto attraverso l'azione della grazia divina che l'uomo può salvarsi. Dunque i peccati sono dell'uomo, ma la possibilità di salvarsi è riposta in Dio. Dice Agostino: "i peccati sono tuoi, i meriti sono di Dio". La salvezza è soltanto un dono divino. Io sono l'autore del male ma non sono l'autore della mia salvezza. Si pone allora un altro grandissimo problema: Dio vuole tutti salvi oppure no? Siamo di fronte a un bivio: la prima ipotesi è che Dio ci voglia tutti salvi. In questo caso, visto che ciò che Dio vuole può, viene vanificata la libertà dell'uomo. Che esso pecchi oppure no, è indifferente: il destino conclusivo sarà la salvezza, voluta da Dio. Vi sarebbe allora solo una libertà paradossale, quella di poter peccare, la quale però conterebbe ben poco, perché, se Dio vuole tutti salvi, io, malgrado l'immensità del mio male, sarò salvo, e quindi la libertà viene annullata. La seconda ipotesi, che è quella di Agostino, ripresa poi anche da Tommaso, è che non tutti si salvano. Ma allora, perché Dio salva alcuni e non altri? Si risponde: per grazia imperscrutabile. Nessun uomo si salverà se non colui che Egli vuole si salvi, dice Agostino e ripete Tommaso. È il grande tema della predestinazione che domina nella teologia luterana, il grande tema del dibattito tra Lutero ed Erasmo che conclude l'Umanesimo e il Rinascimento europeo: il De libero arbitrio di Erasmo da un lato, il De servo arbitrio di Lutero dall'altro. Dice Lutero: facciamo di Dio un idolo ozioso se lo leghiamo alla necessità - alla necessità di salvarci tutti - e ne eliminiamo la forza predestinante. Se io faccio il bene è perché Dio mi ha eletto, ha costruito la mia anima in modo tale che possa fare il bene; e altrettanto se pecco, altrettanto se sono un peccatore, cioè se la mia natura è tale che mi costringe a peccare: è questa la forza predestinante di Dio. Per Lutero ciò segna il crollo di ogni possibile teodicea, ovvero di ogni possibile giustificazione di Dio, dell'idea, nata con Platone, che Dio sia innocente. Dio ci predestina in base a un imperscrutabile disegno: alcune nature sono nate per peccare, altre, che pecchino o non pecchino, sono predestinate alla salvezza. Ogni discorso volto a giustificare Dio per il male del mondo è condannato da questo punto di vista all'insensatezza perché Dio non può più essere ritenuto innocente, come in Platone, ma ancora, tutto sommato, in Agostino, secondo cui Dio è origine ma non autore del male. Con Lutero, invece e con la dottrina della predestinazione, Dio è proprio autore della mia anima, che è un'anima che pecca, destinata a peccare.


La concezione di Erasmo, che vede la condizione umana come una lotta fra bene e male, si contrappone nettamente alla radicale negazione luterana della libertà dell'uomo. Come valutare, oggi, queste due posizioni?

La prospettiva di Lutero, che sembrerebbe così lontana dal nostro mondo, in realtà determina il nostro modo di pensare, a differenza del discorso di Erasmo, che difende il libero arbitrio e che, pur apparendoci più vicino a noi, in realtà appartiene al mondo passato dell'Umanesimo e della Rinascenza. Mentre infatti Erasmo rimane nell'ambito della teodicea, del tentativo di giustificare Dio, Lutero, invece, taglia il nodo gordiano: basta con l'insensato interrogarsi sull'innocenza o meno di Dio. Il nostro arbitrio è servo. Ma questo cosa vuol dire? Che l'uomo deve agire nel suo mondo come se fosse perfettamente libero. In caso contrario, presupponendo di non essere libero, finirebbe per non poter più agire, nella percezione che in ogni caso il proprio destino sia già segnato. L'uomo non può sapere nulla del proprio destino, e dunque deve agire nel mondo, gettato nel mondo, come se la sua salvezza dipendesse da lui; so che non dipende da me, e so anche di non poter minimamente influire né comprendere il disegno divino che mi predestina, e dunque di fatto è come se tutto fosse in mia mano. Come concepire questa libertà? Grandi umanisti italiani come il Valla o indirettamente l'Alberti avevano già rovesciato le tesi consolatorie e ireniche erasmiane. La difficoltà di comprendere cosa sia la libertà è analoga alla perplessità che Agostino dimostrava di fronte al concetto del tempo. Egli diceva: "quando nessuno mi chiede che cosa è il tempo, mi pare di saperlo; appena qualcuno mi chiede: 'ma che cosa è il tempo?', non riesco a definirlo, non riesco più a capirlo, non riesco più a dare una risposta". Lo stesso vale per il concetto di libertà. Possiamo forse comprendere il concetto di libertà così come comprendiamo, calcoliamo altri fenomeni? È impossibile dimostrare la nostra libertà, è impossibile provare che siamo liberi: è proprio questa l'origine del discorso luterano. Proviamo a dimostrare questa impossibilità. Facciamo un esperimento di pensiero: come posso provare, ora che sto parlando, che ciò che sto dicendo dipende da una mia scelta, che io ho scelto di dire ciò che sto dicendo? Come faccio a provare che è per mia libertà che ho detto le parole che ho appena pronunciato? Un esperimento capace di dimostrare la libertà della mia scelta sarebbe attuabile se io potessi tornare indietro all'istante immediatamente precedente questo in cui vi sto parlando, e con me tornassero indietro tutte, nessuna esclusa, le condizioni generali di un istante fa, e io ripetessi con la stessa voce, gli stessi termini, nello stesso tempo, ciò che avete appena ascoltato. Questo è l'unico esperimento per cui potrei dire: sì, sono libero. Se tutto il mondo tornasse a un istante fa, e io ripetessi ciò che avete appena ascoltato allora dimostrerei che l'ho fatto per mia libera scelta. Ma questa dimostrazione, questo esperimento è radicalmente impossibile; è concepibile ma non può realizzarsi. Allora per forza io dubiterò sempre che ciò che vi ho detto sia il frutto di una costrizione, che io sia stato causato a dirvi ciò che vi ho detto, che sia stato un effetto di una catena concomitante di cause che in quell'istante preciso - mio e del mondo - ha costretto me, questa parte del mondo, a dirvi le cose che vi ho detto. La libertà è indimostrabile. Ecco l'idea kantiana: la libertà non è un fenomeno, non è una cosa; la libertà è un pensiero dell'uomo, indimostrabile, incatturabile, è un noumeno. Non è un fenomeno, che possiamo vedere, calcolare, misurare, catturare; è una idea. Questa idea non è dimostrabile: mai potrò dimostrare di essere libero, ecco il taglio luterano che impronta di sé tutta la cultura contemporanea. La libertà è indimostrabile, ma è un'idea che mi è necessario alimento. Ecco la ragione pratica kantiana: è vero che io non posso dimostrare di essere libero, ma è vero altresì che non posso vivere senza questa idea. Ecco la necessità della libertà: non posso vivere senza questa idea. Dirà Nietzsche: è un errore voler dimostrare la nostra libertà, ma è un errore originario, inevitabile, che non posso cancellare dalla mia mente, che alimenta tutto il mio pensiero. La libertà è il presupposto di ogni nostro agire; ma come tutti i presupposti, come tutti i principi primi, è indimostrabile, è necessaria ma indimostrabile. Il principio di identità e di non contraddizione non è dimostrabile, è intuibile, esso presiede a ogni nostro argomentare, ma non è a sua volta dimostrabile: il primo principio è il fondamento. In questi stessi termini dobbiamo pensare la libertà: essa è il fondamento di ogni nostro agire, ma non è, appunto, dimostrabile, come non sono dimostrabili tutti i presupposti, i quali rimangono tuttavia necessari. Se vogliamo, la libertà è una congettura, ma una congettura necessaria. Vorrei aggiungere, per finire: non sono in definitiva congetture tutte le nostre verità ultime? Tutto ciò che ci sta veramente a cuore, tutto ciò per cui viviamo e a volte moriamo, non sono forse congetture? Lungi dall'essere le cose più deboli ed evanescenti della nostra vita, non sono forse proprio le congetture, gli errori originari, le insopprimibili supposizioni le cose più necessarie alla nostra vita? Non è forse l'indimostrabile, l'inattingibile, l'incatturabile ciò che ci sta più a cuore? La libertà appartiene appunto a questo nostro fondamento assolutamente infondato, a questo nostro originario che non potrà mai essere provato, che non potrà mai essere dimostrato, che non potrà mai essere analizzato come analizziamo le cose e i fenomeni. Ma che non sarà mai revocabile fin tanto che pensiamo. Pensando infatti siamo spinti lontano dal dimostrabile, dal catturabile, dal fenomenico, verso il noumenico, verso ciò che è soltanto idea. E all'ambito dell'idea non revocabile, cui siamo davvero destinati, appartiene la libertà. Vi è cioè un destino, e questo sentiamo nella nostra mente. In questa porzione di cosmo che è la nostra mente si mostra un destino, una necessità per noi: pensare che siamo liberi.

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