mercoledì 5 maggio 2010

CROSSING OVER



Amenabar nel suo Agora sceglie Alessandria e una storia esemplare per raccontarci, attraverso la lente di un passato remoto futuribile e impresentabile, il nostro tempo. Wayne Kramer in Crossing Over , invece, sceglie di farlo sul campo, sulla terra arida e bollente che separa il Messico e gli Stati Uniti, sulle false speranze di paesi (ex) ricchi come Israele e Australia, nel sorriso strappato a una bimba nigeriana, nel pianto infantile di un teppistello coreano, nell'arroganza pseudoreligiosa e fondamentalista di una famiglia iraniana (tra festival e uscite in sala, torna persino Persepolis a Milano, Roma e Torino, lo spettro di Teheran non ci abbandona), nella difficile quotidianità di una famiglia del Bangladesh.
L'impero americano in declino e le sue province, gli emigranti che arrivano e cercano lo status, non più confinati ad Ellis Island, limbo materiale, ma ricattati da visti che non si tramutano in green card. Vediamo sette conti alla rovescia di sette vite e famiglie che cercano il viatico del riscatto attraverso la naturalizzazione a stelle e strisce. E a quella cerimonia, retorica e pomposa, ci arriviamo con loro, trionfo di una battaglia sanguinosa che non divide equamente vincitori e vinti: perché quando una guerra ha regole ingiuste e sbagliate il risultato è affidato al fato. Ecco la bella intuizione di Kramer, che per il resto ci regala un film ordinario: mostrare che il premio dell'american dream va al più fortunato o scaltro, e non a chi lo merita. Harrison Ford è un agente dell'ICE (Immigration and Customs Enforcement) ed è il centro di gravità precario attorno a cui girano le storie di un film che Kramer, abilmente, instrada negli schemi collaudati già nobilitati da Crash e Babel . Si rifà umilmente (e in qualche momento sfacciatamente, vedi la storia della mamma coraggio Alice Braga) ai modelli, per poter andare al centro del contenuto, del messaggio a costo di apparire didascalico, come nel personaggio dell'avvocato dei clandestini Ashley Judd. E riesce meglio lì dove sa essere ironico o impietoso: con l'attrice australiana (Alice Eve, ottima) che si prostituisce con il burocrate Ray Liotta, la giovane iraniana anticonformista (Melody Khazae) che vuole vivere la sua sessualità in una famiglia emancipata solo nel portafoglio, l'adolescente bengalese considerata filojihadista per un tema scolastico, l'ebreo ateo (Jim Sturgess) che cerca in una religiosità posticcia la scorciatoia per la green card. E se pure, sia nella scrittura che nelle immagini, c'è qualche stereotipo di troppo e l'eroe è troppo scolpito, persino nelle rughe, l'affresco d'insieme è potente e immediato.
Un Bignami della tolleranza zero, dei pregiudizi e di un impero che crollando, come sempre, lascia gli ultimi, i più deboli, sotto le macerie.

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