sabato 22 gennaio 2011

INTERVISTA A PAOLO CONTE


Tempo fa ci aveva confidato di essere stanco, privo di ispirazione.
"L'appetito vien mangiando. Sì, sono contento, mi sono divertito molto. Il sapore della musica è spagnolo. Faccio alcuni esempi di passione nascosta: le vigne in luogo arido che tuttavia sembrano quasi ammuffite poi tirano fuori il frutto, certe donne pallide che invece contengono sorprese, cose di questo tipo".

Anche vederla all'Arena fa un certo effetto. In genere lei predilige luoghi più raccolti. Come si è trovato? "Il rapporto col pubblico non è facile da decifrare, perché guardi l'oscurità, hai le luci in faccia, non vedi nessuno, devi captare nell'aria le sensazioni che ti dà la platea, la qualità dei silenzi, la reattività degli applausi. Poteva essere dispersivo, ma no, è stata una bella serata".

Nel video si nota chiaramente che lei quando il pubblico applaude dice delle cose, ma lontano dal microfono. Cos'è che dice? "Aaahh, l'ha notato, eh? Sì, effettivamente dico qualcosa, qualche volta ripeto il titolo del pezzo, come dicendo a me stesso adesso ti ho fatto Lupi spelacchiati, poi sarà Bartali, cose che improvviso tra me e me, qualcosa che non deve arrivare in platea".

La canzone che ha scritto per Celentano ce l'aveva nel cassetto? "No, lui mi ha chiamato, io ho detto vediamo. Poi mi è venuto un testo, facendo tesoro della confidenza che mi aveva fatto tanti anni fa, parlando della vita ultraterrena. Lui parla per parabole: il paradiso è un cavallo bianco che non suda mai, perché sai, se tu vai a cavallo qui in mezzo alle gambe senti il sudore del cavallo. Mi sembrava una parlata da indiano, e ho scritto una musica un po' pellerossa che non mi dispiaceva, lui è stato un po' timido nel cantarlo, un po' cupo, sembra quasi che col mio provino l'abbia influenzato. Io invece sono molto stimolato dalla sua voce".

E non le ha chiesto di andare in trasmissione? "Sì, ma non era il caso, non esageriamo".

Erano anni che non scriveva per altri. Come mai?
"Non mi va di andare in giro a proporre, e poi di dover soffrire perché ci vuole il tempo di seguire il cantante e l'arrangiatore. Ci vuole un attimo che ti tradiscano il senso. Questa volta me l'ha chiesto, c'era questa urgenza, pensi che abbiamo dovuto mandare un taxi col provino, fino a Milano".

Ma lei la televisione la guarda? "Poco, magari le partite di tennis. Ma devo dire che di robe italiane mi piace "La squadra" o "Distretto di polizia", perché trovo che nella forza pubblica noi italiani diamo il meglio, per non parlare di Montalbano. Con queste cose vai tranquillo, le fiction le seguo, però mi sono beccato anche i Carabinieri, don Matteo...".

E' vero che c'è qualcosa in ballo con gli Avion Travel? "Sì, è vero, è una storia che va avanti molto lentamente, ma dovrebbe andare in porto. E' un disco con mie canzoni cantate dagli Avion Travel".

Con la sua collaborazione? "Sì, ci consigliamo a distanza. Perché loro hanno fatto una scelta di 28 canzoni e le stanno provando tutte per vedere quelle che riescono meglio. E' bello, sì, perché ho avuto sempre ammirazione per loro e teoricamente il marriage dovrebbe funzionare".

Che ambizione può avere, o meglio, che sogni proibiti può avere un artista come lei che ha avuto grandi soddisfazioni? "Molto semplice, la voglia di andare a caccia di una canzone più bella di quella che hai scritto prima. L'inseguimento è sempre su quella pista lì".

E quando si è avvicinato alla canzone perfetta? "Di sicuro ci sono quelle che mi hanno emozionato mentre le scrivevo. Ma dopo trent'anni posso giudicarle solo a distanza e posso immaginare quelle che sono non dico più riuscite, ma più cariche, più generose".

Tra queste c'è "Genova per noi"? "E' tra queste. Quando nasce una canzone, specialmente se riuscita, ti inebria, sono momenti meravigliosi, che durano magari alcuni giorni. In quel momento sei vergine, ti stupisci di quello che sei riuscito a scrivere, e vivi di questo stupore. E' il momento più alto. Poi cantandole per anni il profumo svanisce, ma ogni tanto ritorna".

Lei ha marciato sempre da solo. E' una scelta precisa? "Sì, perché se devo sbagliare sbaglio da solo, si deve sbagliare da professionisti, mi piace controllare tutti i dettagli, mi si confonderebbero le carte in mano, potrebbe essere anche carino, ma non so...".

E se la chiamasse Mina? "No, guardi, con tutto il rispetto, ma il duetto lo escluderei proprio, io devo essere sovrano nelle mie cose".

Lei che è così attento alle parole, non si trova in difficoltà in tempi in cui la parola sembra aver perso la sua integrità? "Me ne frego, non soffro per una caduta di letterarietà nei nostri gusti. Ho sempre detto che se di poeticità bisogna parlare, bisogna concederla non solo alla parte letteraria, ma anche alla musica. La musica deve essere poetica, l'interpretazione deve essere poetica, il rapporto che si stabilisce con il pubblico deve essere poetico. Quello che disturba a scrivere, al di là della scarsa plasticità della lingua italiana, è che tante volte scrivendo nella propria lingua uno sceglie le parole che ti danno la certezza assoluta e questa certezza a volte da fastidio perché il sogno artistico è molto astratto. Certo, a volte la torta riesce bene, hai messo proprio quelle parole che non potevi scambiare con altre, in altri casi ti frenano, il discorso artistico è fatto di dubbi, suggestioni".

Ha a che fare con questo la sua passione per l'enigmistica?
"Beh, ogni volta che incontro un incrocio di parole ci sto attento. Qualche volta l'ho usata per qualche doppio senso, ma in genere scrivo prima le musiche, però magari in viaggio mi annoto parole, e qualche volta lo scatto è quello di tre o quattro parole che tra di loro funzionano e cominciano a darti un profumo".

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