domenica 18 settembre 2011

MOGOL


Perché l’autore della musica si chiama autore della musica e l’autore delle parole si chiama paroliere?

L’autore della musica per la Siae si chiama compositore. Chiamare l’autore dei testi "paroliere" è un tentativo di dequalificazione. È mancanza di rispetto. Noi non possiamo opporre che un richiamo civile, che rimane inascoltato. Chi usa il termine "paroliere" è un uomo insensibile e anche un po’ ignorante. Tutte le volte che leggete "paroliere" pensate che è una parola scritta da una persona ignorante o, peggio, volontariamente irrispettosa.

Non sei un po’ esagerato?

Esagerato? No. Sarebbe come definire i giornalisti scribacchini.

Come vuoi essere chiamato?

Autore. Nel mondo della musica autore è colui che scrive i testi.

Ma nessuno chiamava compositore Battisti.

Perché lui era compositore e cantante e arrangiatore.

E come andrebbe chiamato uno così?

Musicista. Un termine che prende tutto, molto nobile.

A te non piace nemmeno la parola cantautore.

I cantautori io li chiamo artisti.

Che rapporto c’è tra testo e musica?

Io dico agli allievi: «Cercate il testo che c’è scritto nella musica». La musica, se è bella, dice delle cose che sfuggono al compositore. Tocca all’autore dei testi trovarle. Servendosi della sua vita.

L’autore delle parole sarebbe un maieuta che cerca dentro la musicale parole che quella musica contiene?

L’autore delle parole riceve una spinta forte sull’onda di una colonna sonora che gli fa rivivere dei passi della sua

Tu scrivi le parole canticchiandole sopra la musica… Spesso lo fai in macchina…

Una, Molecole, musica di Lavezzi, l’ho scritta al cinema mentre vedevo un film, al buio. Facevo una fatica enorme perché dovevo ricordarmi a memoria la musica.

Che film era?

Il film ovviamente non l’ho visto. Il cinema era il Mignon di Milano.

E in macchina?

Molte ne scrivo guidando.

Emozioni l’hai scritta guidando…

L’ho scritta metà al Dosso, la mia casa di campagna a Molteno. L’altra metà sulla strada per Genova, dalle parti di Ovada, guidando la mia giardinetta 500 con a bordo i miei figli e mia moglie. Ripetevo musica e parole a mente, finché non l’imparai a memoria.

Altre?

Una canzone che poi cantò Celentano mi commosse, Le parole che non ti ho detto mai . La musica era di Gianni Bella. Il testo parlava del fatto che morivo e spiegavo a una donna, la mia compagna di allora, che cosa mi sarei aspettato da lei. L’avevo scritta col cuore e mi misi a piangere. Da solo, in macchina, al volante. È l’unica volta che mi è capitata una cosa del genere.

Anche E penso a te…

L’ho scritta nei diciannove minuti di autostrada tra Milano e Como. Eravamo su una macchina piccolissima. Uno guidava. Lucio stava davanti e io dietro. Lucio canticchiava davanti e io trovavo le parole dietro.

Le parole poi le riscriveva sempre Lucio…

Alle fine le ricopiava in bella. Lui era un precisino. Preferiva riscriverle con la sua calligrafia, magari perché la mia non sempre era leggibile.

Avete mai fatto qualche errore?

Nell’album Anima latina c’erano canzoni bellissime. Lucio abbassò la voce nel missaggio, per cui si faceva fatica a capire le parole delle canzoni. Purtroppo vendette molto meno, nonostante fosse uno dei dischi più belli.

E non hai chiesto a Lucio perché l’aveva fatto?

Certo che glielo chiesi. Mi rispose: «Così cercheranno di capire le parole prestando più attenzione».

Sembrerebbe una sciocchezza.

Era una chiara volontà di spingere tutti a cercare di capire che cosa diceva il testo.

Ma se abbassi il volume non capisci proprio niente.

Io infatti non ero d’accordo, gli dissi che non era un’idea felice. E lui non lo fece più. Si persero due terzi delle vendite a causa di quella idea. Era un album straordinario. C’era Anonimo, la storia della mia infanzia, il cane che mi aveva messo un dente nella palpebra e mio padre che pensava che mi avesse mangiato l’occhio, e la ragazza di ventitré anni che era rimasta sola e c’erano gli americani che andavano e venivano, lei era giovane e io la vedevo che era rossa in viso e stendeva i panni e vedevo le gambe nude. Ero un bambino.

Hai mai scritto una musica, magari solo per gioco…

Mai. Ho scritto un pezzettino di musica. Ma mi vergogno. Non dirò mai quale, né il titolo né l’autore. Se la canto, ridete tutti.

Perché, è brutta?

Sì, è molto brutta.

Ma che cosa è?

È un pezzettino di una cosa musicale molto famosa.

La sigla dell’Eurovisione, quella di Carosello, quella del Tg1?

È molto famosa ma è la parte meno bella di una canzone splendida, che tutti però conoscono. È un’aggiuntina che ho fatto.

È una canzone comunque?

È un pezzo musicale. Se l’avesse fatto quello che ha fatto la canzone, l’avrebbe scritto meglio. Quel pezzettino lì muore con me. Non lo saprà mai nessuno. Sono tre-quattro battute, si ripetono, una cosa piccola. Sarebbe immorale dirlo.

Hai firmato anche il testo di una canzone senza parole.

Battisti aveva scritto una canzone che non mi piaceva, Ultradivagazioni elettroniche . Io non volli scrivere le parole. Mi disse: «Dimmi almeno il titolo». Io dissi: «È da bruciare. Chiamala Il fuoco». Divenne il titolo della canzone, solo musica. E lui volle lo stesso darmi i diritti perché gli avevo dato il titolo. Così la firmai.

Non è l’unica canzone con sola musica.

Io insistevo perché lui scrivesse anche solo musica. Qualche volta lo faceva. Poi gli sceglievo i titoli, perché lui aveva questa voglia di stare sempre insieme artisticamente. Io facevo dei titoli lunghissimi per accontentarlo. C’era tra di noi un sentimento nobile.

Viene da pensare che Battisti scrivesse la musica molto influenzato da te.

Dopo ogni album ci trovavamo per commentare che cos’era successo e come impostare un nuovo discorso. Quella era la fase in cui io commentavo e influenzavo forse un po’ le sue scelte musicali.

Come scrivevate le canzoni?

Lucio veniva con le musiche. Io ci mettevo sopra le parole. Il giorno dopo la canzone era nata. Lucio è l’unico autore con cui ho lavorato che il giorno dopo che io gli avevo consegnato le parole si presentava senza foglietti. E cantava a memoria. Lui tornava a casa e il mattino dopo me la cantava tutta. L’assorbiva in una notte. Una volta mi disse: Quando c’è una nuova canzone, io la canto e me la incido quattro volte. Poi la risento nei quattro modi in cui l’ho cantata. Quella che mi stanca di meno, la scelgo».

È vero che le canzoni appena composte le facevate ascoltare per primo a un amico giardiniere?

Pier Luigi Ratti, un architetto giardiniere. Ha un’impresa grande: vivai, giardini, fa addobbi per i presidenti americani. Fa i più importanti matrimoni nel mondo. Spesso andavamo a cena da lui e da sua moglie Elena, e gli facevamo ascoltare la canzone appena scritta. Pier Luigi è molto dolce, Elena è di polso. Le ho dedicato una canzone in cui lui è obbligato a far tutto quello che lei gli dice. Una canzone buffissima.

Qualcun altro ascoltava le canzoni appena composte?

Quelli dell’Istituto dei Tumori. Andavamo là, io e Lucio, io presentavo e lui cantava tutto l’album ancora prima di inciderlo. Stare vicino a chi soffre è una cosa fantastica. È consolante anche per te.

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