domenica 14 novembre 2010

CAPITOLO I


Proprio come quelli che sto sbucciando adesso: rugosi, maturi, rossi come polvere di mattone. Per un grappolo di pomodori “fiorentini” è cambiata la mia vita. Probabilmente se non avessi ribattuto alla richiesta di Francesco oggi sarei un uomo diverso, farei certamente altro. Chissà, sarei potuto diventare un dirigente diligente, uno scrupoloso bracciante agricolo, magari un famoso autore di canzonette melodiche.
Ma in fondo cosa avevo da perdere? Nulla, se non la possibilità di diventare il cuoco di questo piccolo ristorante.
Ci eravamo presentati in tre per quel posto e i miei due rivali erano già passati dalle forche caudine del primo colloquio lasciandosi dietro le spalle la sicurezza d'avere raggiunto l'obiettivo prefissato. Entrambi avevano presentato piatti di livello: il primo, Federico, era un giovane appena tornato da varie esperienze di lavoro all'estero. Era stato per qualche anno negli Stati Uniti, poi a Manchester. Infine aveva passato poco più di un anno nel sud della Francia, precisamente a Tarascon, lavorando al Ristorante Le Mistral. Il piatto che aveva presentato come biglietto da visita era un fantastico stufato, tirato su con del Brolio e accompagnato da un croccante risotto alle noci. Oggettivamente era qualcosa che rapiva. Prima la vista e l'olfatto, poi, naturalmente, il palato. E si parlava di un palato piuttosto ruvido, quello di Francesco.
Il secondo pretendente, Mario, era invece un uomo di mezza età, aveva lavorato per più di vent'anni in svariati locali della zona: già noto per la sapienza mistica con cui sapeva scegliere la carne , cuoceva una Fiorentina incomparabile. Proprio come il suo carattere scostante e riottoso.
Federico era rimasto nove ore filate per la preparazione del suo meraviglioso piatto; lui poco più di un'ora e mezza. La carne brillava sanguigna e granata, aveva il dorso dorato e trapuntato di grani di pepe e sale grosso, pareva croccante.
Dunque non fu imprevedibile il fatto che il mio futuro datore di lavoro rimanesse stupito nel sentirsi proporre come cavallo di battaglia un semplice piatto di spaghetti al pomodoro. Però fu anche il motivo che lo rese curioso e, passati quei brevi momenti di sconcerto, mi accompagnò in cucina per mettermi alla prova.
E lì - in cucina intendo - si vennero a creare i presupposti giusti per la mia prossima assunzione; condizioni che, a pensarci bene e col senno di poi, avrebbero anche potuto mettermi direttamente e brutalmente alla porta.
-“lì dovrebbe trovare tutto quello che le serve. Pomodori, olio extravergine, cipolla... se ne occorre, odori.”
Osservai attorno con calma tutto quanto era disposto sul piano di lavoro. Poi, una volta certo di aver memorizzato ogni singolo oggetto disposto, risposi:
-”mi dispiace, non posso continuare. Non ci sono i “fiorentini”.
-”Vabbè”, rispose lui, “ci sono almeno quattro tipi differenti di pomodori, non credo che per lei questo possa rappresentare un problema”
-”Invece lo è. Mi dispiace ma non sarebbe la stessa cosa”.

Francesco prese allora tempo, più per osservarmi che per rispondermi. Chissà quali domande si deve essere fatto. Mi fissò lungamente negli occhi, poi passò al dorso delle mani. Stavolta non vi era stato segno di sorpresa nella sua espressione. Si accese d'un mezzo sorriso dicendomi:
-”Bene, allora ci rivedremo domani. E faccia attenzione, avesse altre esigenze simili.”

Francesco a quel tempo aveva poco più di trent'anni e già da dieci aveva avviato il ristorante, ristrutturando la colonica di famiglia e trasformandola: così passava le giornate a lavoro e la sera nelle stanze che si era ricavato ai piani superiori. Il passo pesante, quello di un uomo robusto e stanco, lo accompagnava su per le scale con la lentezza del sole all'alba.

Ma quando succedeva era l'ora in cui lui saliva e il sole scendeva.

Più tardi, poi, faceva ancora una piccola rampa che lo portava in una bella mansarda. Lì passava almeno un paio di ore, qualsiasi ora avesse fatto al ristorante.

Il giorno appresso mi presentai coi pomodori appena colti nell'orto di casa mia. In silenzio, Francesco mi riaccompagnò in cucina. Io, egualmente, mi misi al lavoro senza proferire parola: presi un tegame largo e basso ed iniziai a riempirlo con il crudo di tutti gli ingredienti.

-“Devo dire che la sua è stata una scelta che mi ha colpito” - interruppe Francesco -, “certo, per pur quanto potrà essere buono il piatto, non vuole certo convincermi con mortaretti e petardi”
-”E' vero”, risposi. “Nessun effetto speciale”.

Visibilmente insoddisfatto della mia risposta fece per ribattere, poi trattenutosi per un momento, non riusci a placare la propria curiosità:
-“Davvero ne vorrei sapere di più su questa sua scelta, l'ho trovata davvero banale. Fossi stato invitato a cena a casa sua l'avrei presa come uno sgarbo ma qui, dove c'è in gioco il suo futuro lavorativo, mi è sembrato bislacco. Dunque?”
Io già avevo affettato grossolanamente la cipolla di Certaldo e stavo aprendo con le mani i pomodori fiorentini in un gesto che sempre mi ricorda quello di spezzare il pane. Mi interruppi per un secondo e risposi:
-”La banalità è un buon punto di partenza, credo. E' sicura, perlomeno. Si guardi intorno poi, se esce di qui e prende il viottolo che porta verso la Fattoria della Romita trova vigne e olivete. Galleggiamo in questa semplicità da secoli. Non vi è incertezza, solo bellezza. E rendere enigmatica la semplicità non è poi così difficile; farla diventare segretamente complessa è diverso”.

Un suono strano e misterioso mi arrivò come risposta: non un grugnito, non una risata di scherno. Nemmeno un accenno di apprezzamento, per questo.
Non avevo neanche capito se quel ruggito provenisse dalla sua bocca o dal suo petto.
-”Ah!, un cuoco filosofo!” disse infine, con un tono troppo alto ed ironia scortese.
-”No... no..., ribattei immediatamente, "le mie parole vanno assolutamente prese alla lettera”.

Il silenzio si dispose allora come polvere, lo vidi scendere dall'alto.

Fissai Francesco negli occhi chiari e raffreddati, presi i pomodori San Marzano e li tagliai con il coltello. Infine sedano, basilico e olio di oliva; alzai la fiamma e tappai ermeticamente il tegame con un piatto.
Mi misi lì ad aspettare.
Lui uscì a fumare. Lo vedevo dalla finestra mentre appoggiato ad un tavolino guardava le nuvole fresche di fine estate. Sembrava perso nell'azzurro, ma non capivo se in quello del cielo o in quello del fumo delle Muratti Ambassador. Si scosse quasi impaurito quando una ragazza di nemmeno vent'anni le si avvicinò baciandolo sulla guancia. Lui la guardò stordito ravvivendo il colore degli occhi, poi un sorriso istintivo e spontaneo si trasformò in una risata grossa ed infantile. Lei l'osservava stranita, con quel mezzo sorriso e quella voglia inappagata di dargli una compagnia insicura e disagiata.

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