martedì 16 novembre 2010

CIAO, LUIGI, CIAO.



Ad Alessandro e alla moltitudine come lui.

« Io sono uno che sorride di rado, questo è vero ah, ah, ah, ah, ma in giro ce ne sono già tanti che ridono e sorridono sempre, però poi non ti dicono mai cosa pensano dentro »
(Luigi Tenco, Io sono uno, 1966)

Luigi aprì la porta dell'Hotel Savoy.

Sedette sulla coperta damascata del letto pomposamente adornato e si accese una sigaretta; fumò senza mai prendere fiato, con lo sguardo fisso e lontano, senza mai batter ciglio.

Guardò le città che erano passate sulla sua vita: Torino e Genova, poi tutte quelle che il suo lavoro era stato portato a frequentare. Ma non vi pensò come luoghi abitati, sempre posti impersonali e vuoti, fatti di mura e di viste lontane. Solo da Nervi, la cittadina dove aveva passato la propria giovinezza, ricevette un compenso emotivo; di Nervi ricordò sè stesso passeggiare sul mare irruento.

La prima sigaretta fu insapore, non male.

Poi il suo sguardò prese quell'accento indicibile che spesso poggiava tremendamente sulla tristezza; assente e malinconico, rabbioso e duro, disperato e solo.

S'accese la seconda sigaretta.

Fu la volta delle persone conosciute a sfilare di fronte a lui; parevano uscire uno alla volta dall'armadio di radica che aveva davanti a sè, facendosi vedere, fermandosi un momento come fanno le modelle a fine passarella, e poi uscendosene.
Luigi ogni volta trasalì addolorato: ogni uomo che si gli si parò dinanzi pareva una maschera irriverente. Cominciò a piangere e sempre di più, singhiozzando per ogni tradimento ricevuto.
Si chiese a cosa servisse l'amore, e non lo comprese.
Solo con Dalida pareva avesse avuto un senso.
Ma Luigi era fatto d'infinito ed il suo luogo naturale era l'universo.

Stavolta il fumo gli bruciò gli occhi.

La seconda sigaretta fu acre e forte.

Si tirò su e fumò ancora. Il sapore dell'ultima sigaretta non fu in grado di registrarlo, come non riuscì a sentire più la presenza di se stesso, in quell'albergo di lusso sanremese. Era come se fosse già morto e non era affatto male.

Così fu la gloria di una calibro 22.


"Signori benpensanti
spero non vi dispiaccia
se in cielo, in mezzo ai Santi
Dio, fra le sue braccia
soffocherà il singhiozzo
di quelle labbra smorte
che all'odio e all'ignoranza
preferirono la morte."
(Fabrizio De Andrè, da preghiera in gennaio, in memoria di Luigi Tenco.

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